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furti rivelatori (Kiarostami, Lynch, Makhmalbaf)
_____________________ ABC Africa, interno notte. Nell’albergo dove alloggiano Kiarostami e il suo assistente va via la luce. I due cominciano a vagare a tentoni tra corridoi e scale. Le telecamere restano accese: un’interminabile sequenza completamente nera, solo voci e rumori. “Non mi abituerei a vivere così neanche per cinque minuti.” “Non sappiamo abituarci proprio perché si tratta di cinque minuti. Ma ci abitueremmo se durasse cinque anni, o cinquant’anni.” “La cosa straordinaria è che alla fine gli esseri umani si abituano a tutto.” Kiarostami torna nella sua stanza, inquadra la finestra. Piove, un lampo improvviso rischiara l’obiettivo: un albero dalle foglie tremolanti. Solo un istante. Poi di nuovo nero. È in questo buio sconfinato, buio che sconfina il linguaggio dell’immagine, saltando gli steccati del nostro sguardo e affacciandolo a nuove frontiere, che il cinema dimostra di essere tuttora “in moto”, ancora alla ricerca di nuove illuminazioni. Perché la cosa tremenda è che alla fine gli spettatori si abituano a tutto, perfino alla prigione che è il cinema odierno. E allora diventano troppo importanti quegli ultimi fuorilegge che sanno evadere dagli sche(r)mi che ci opprimono. Lynch che in Mulholland Drive ci invita in un teatro a notte fonda, dove un pubblico attonito assiste al nulla, al puro Silenzio. O Makhmalbaf che in Viaggio a Kandahar fa scendere un velo sulla sua eroina, rendendola illeggibile Assenza. O come il topo di appartamenti di Following di Christopher Nolan, che non ruba mai nulla, ma sposta oggetti da un punto all’altro, da una casa all’altra. “Quando sottrai, gli mostri quello che aveva”: è solo nel momento in cui sparisce che la sovrabbondante merce della società contemporanea scopre una nuova anima. Allo stesso modo, contro la generosità bulimica di effetti speciali e megaproduzioni, il vero cinema del 2000 sceglie l’avarizia del linguaggio; ed è proprio questo furto esplicito dei segni, dell’immagine, dei suoni, dei corpi, a renderci coscienti della loro presenza. Quando li ritroveremo, ma infinitamente più miseri, più confinati, in mille altri film. dantealbanesi “La Linea dell’Occhio” n. 44
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About baikcinema
Albanesi Dante
(BAIKcinema) Dante Albanesi (San Benedetto del Tronto, 1968). Laurea in DAMS Spettacolo a Bologna, con tesi su Peter Greenaway (110 e lode). Per la critica cinematografica, ha vinto i Premi Segnocinema 1994, Adelio Ferrero 1994 e Filippo Sacchi 1997. Ha scritto di cinema su quotidiani (“Il Resto del Carlino”), siti internet e riviste, tra i quali: “Cineforum”, “Cabiria”, “La linea dell’occhio”, “Segnocinema”, “reVision”, “Shortvillage”, “Cinemania”, “Fotogenia”, “CinemaSud”, “Proiezioni”, “AccaParlante”, “ilDocumentario.it”. Ha collaborato con il Premio Libero Bizzarri (documentari italiani e internazionali) e il FanoFilmFestival (cortometraggio internazionale). Nel 2002 ha pubblicato il libro Da Cabiria a Moulin Rouge! – Cento anni di musica per il cinema (Cineforum San Benedetto del Tronto). Organizzatore di corsi di cinema per scuole, enti e associazioni. Direttore Artistico delle edizioni 2003-2011 del festival del cinema breve CortoperScelta. Autore di corti di finzione e documentari, con partecipazioni a circa 110 festival italiani e internazionali e circa 30 premi, tra i quali: 42° Mostra del Cinema di Pesaro, FanoFilmFestival 2006, Sottodiciotto di Torino, Videoconcorso Pasinetti di Venezia). Docente di materie cinematografiche all’Ipsia di San Benedetto del Tronto – Indirizzo “Produzione Audiovisive”. View my profile Send me a message |